L’intricata situazione siro-irakena rischia di evolvere sempre di più verso un macro-conflitto regionale.
Le forze fedeli al governo di Assad avanzano nel nord della Siria, con sotto la copertura aerea russa e con l’appoggio del PYD, sottraendo terreno alle bande islamiste appoggiate dal governo turco. L’avanzata sta chiudendo inesorabilmente i corridoi logistici utilizzati dagli islamisti sunniti per ricevere rifornimenti dalla Turchia, mettendo in seria difficoltà il governo di Erdogan; l’Iran è sempre più presente in Irak e questo preoccupa seriamente il governo saudita e le altre petromonarchie del Golfo che, al contempo, devono affrontare una crisi economica data dei bassissimi prezzi del greggio.
Non a caso in questa settimana si sono fatte sempre più concrete le possibilità che una coalizione turco-saudita intervenga via terra in Siria, causando di fatto una guerra con l’asse siro-russo-iraniano. Ma molte componenti dello stato turco non ne vogliono sapere di intervenire senza una copertura Usa e, implicitamente, NATO, alleanza di cui la Turchia fa parte, copertura che, al momento, sembra completamente assente, nonostante l’avvicinamento tra governo tedesco e turco nel tentativo di gestire la crisi dei profughi siriani.
La situazione, insomma, si intrica giorno per giorno. La politica di potenza con copertura ideologica neo-ottomana/pan-turca del governo di Erdogan è messa alle strette: se l’apertura del conflitto siriano aveva dato la possibilità di entrare prepotentemente nel territorio del vicino meridionale per dichiarare la propria tutela sulle popolazioni turcomanne del nord-ovest della Siria e utilizzare in funzione anti-PKK/PYD lo Stato Islamico l’avanzata, a sud e ad est, delle milizie dei gruppi che si richiamano al confederalismo democratico del PYD e a nord-ovest e ad est delle forze lealiste e sciite a guida iraniana ha completamente fatto a pezzi questa strategia. Nel contempo l’Iran ha rinforzato la sua posizione in Irak: se il centro del paese non è caduto nelle mani del Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi questo lo si deve solamente all’impegno militare delle milizie sciite irakene, come quelle di al Sadr che tanto filo da torcere diedero agli USA dieci anni fa, appoggiate dalla Repubblica Islamica. L’asse sud di proiezione strategica del governo turco si trova stretto in una morsa e segmentato. Il governo del despota di turco si trova costretto a tentare la carta del tutto per tutto, ammesso e non concesso che lo stato profondo turco, che in parte ha resistito alla riorganizzazione voluta dagli attuali vertici dell’AKP, gli faccia giocare questa carta. Ovviamente potrebbe anche decidere di proiettarsi per reazione a nord per (ri)aprire una guerra assimetrica con la Russia nel Caucaso e, forse nella stessa Ucraina. Ma in ogni caso si aprirebbe una situazione di conflitto molto più aperto con la Russia. Putin ha costruito il suo potere sulla pacificazione, sanguinosa, della Cecenia e del Caucaso musulmano e l’ha fatto in modo intelligente: ha si spazzato via gli islamisti radicali eterodiretti dal Golfo Arabico ma ha anche dato potere alle elitè musulmane-moderate filo russe, la Cecenia è una repubblica federata con la Russia Federale, gode ampia autonomia, difficilmente si potrebbe accusare Putin di discriminare la popolazione musulmana in Russia. Il conflitto si potrebbe spostare nell’inner-core euroasiatico delle repubbliche ex-sovietiche nel tentativo di distrarre le risorse russe in guerre e guerriglie. Ma intanto senza un diretto intervento in Siria il governo di Assad sotto protezione russa acquisisce di giorno in giorno un maggior potere negoziale nei colloqui di pace. E allo stesso modo il PYD si rafforza: pur non essendo certamente interessato a tenere sotto controllo le zone non kurde del nord ovest siriano ha dimostrato un’alta capacità militare. E ha dimostrato di essere il vero ago della bilancia nella questione. Meno di un anno fa c’era il concreto rischio che si riaprisse il conflitto armato tra PYD e governo siriano ma questo è stato costretto a scegliere quello che considera il male minore: un kurdistan siriano autonomo e autogovernato è più accettabile rispetto ad uno Stato Islamico rafforzato, ovvero ad una maggiore ingerenza turco-saudita nel levante.
Intanto, in Irak il governo regionale del Kurdistan Irakeno, difatti completamente indipendente rispetto a Baghdad, dopo le iniziali batoste prese dell’IS è riuscito a riguadagnare terreno. La sua strategia di contenimento basata su una difesa di profondità ha funzionato e ha potuto tornare all’attacco: ma per farlo, nella zona di Mosul e nei territori Yazidi, ha dovuto appoggiarsi, oltre che al consueto alleato statunitense, al PKK e al PYD. Un’alleanza inedita, e vittoriosa, dettata anche dalla pressione della stessa opinione pubblica kurda, che per ora sembra già finita. Pochi mesi fa il KRG permetteva all’esercito turco di stabilire una base in territorio irakeno, scatenando la protesta irakena, russa, e americana. Dopo neanche una settimana i turchi erano costretti a ritirarsi. Quello è stato il segnale che si erano definitivamente incrinati i rapporti tra USA e Turchia. L’amministrazione di Obama non ha tollerato la mossa turca che rischiava di alienare i rapporti con il governo di Baghdad spingendolo ancora di più verso l’Iran. Al contempo l’Iran non può permettersi un rafforzamento delle formazioni kurde legate al PKK-PYD: l’Iran occupa parte del Kurdistan settentrionale e il PJAK, il partito kurdo in Iran che ha fatto sue le teorie del confederalismo democratico, è in conflitto con la teocrazia di Theran.
Nel frattempo l’Unione Europea, dando ennesima prova di idiozia, si è messa a regalare miliardi di euro al governo turco per “l’emergenza profughi”. In pratica si sta cercando si subappaltare la gestione crisi dei profughi siriani ad un governo che ne è stato una delle principali cause. Tra l’altro l’UE sa benissimo quali sono i metodi turchi per la gestione dei flussi migratori: raffiche di mitragliatrice, filo spinato e cannonate. Una politica criminale di cui l’UE è pienamente complice. Ma c’è da stupirsene? No: qualcosa di simile lo si fece con Gheddafi.
Una possibile interpretazione di questo complesso quadro suggerisce che l’amministrazione statunitense abbia tutto l’interesse a mantenere in continuo conflitto il teatro siro-irakeno per fare impantanare i russi e gli iraniani in guerra mediorientale. Ma allo stesso tempo ha tutto l’interesse a non far si che la situazione precipiti in una aperta guerra tra il blocco sunnita del Golfo e la Turchia da un lato e l’asse Russo-Iraniano: in un conflitto aperto il governo Turco sarebbe necessariamente perdente, non tanto contro un parigrado come l’Iran, ma contro la Russia che è una delle prime due potenze militari al mondo. Se l’amministrazione statunitense manterrà una linea di fermezza nei confronti delle pretese turche e saudite e aprirà delle serie trattative con la Russia si potrà arrivare ad una soluzione diplomatica, anche se necessariamente temporanea. Al contrario si scatenerà un conflitto dalle evoluzioni difficilmente prevedibili ma che non farebbe comodo a nessuno.
Nel frattempo il governo di Erdogan deve affrontare una difficile situazione nel Bakur, il Kurdistan Turco. La volontà di Erdogan di riaprire un conflitto aperto con il PKK, o nel tentativo psicotico di spazzarlo via o nel tentativo più razionale di ridimensionarlo e metterlo in una situazione di minorità in una riapertura del tavolo di pace, ha portato l’esercito turco in una guerriglia urbana nelle principali città, che hanno dichiarato l’autonomia sul modello del Rojava. Finora il PKK, in modo intelligente, non ha ripreso la strategia degli attentati, probabilmente definitivamente abbandonata, attuata nel corso degli anni novanta, prima della svolta a sinistra della sua dirigenza. L’attentato della settimana scorsa che il governo aveva provato ad imputare al PKK-PYD è stato rivendicato dal TAK, formazione lottarmatista kurda che ha una politica nazionalistica ed è slegato da anni dal PKK.
Se si verificherà quanto detto prima da parte degli USA e della Russia e, al contempo, il PKK-PYD riuscirà a mantenere la sua strategia sui binari del cambiamento sociale, anche se giocoforza con una forte componente militare, senza tornare ad una fallimentare politica nazionalistica rimarranno aperte le possibilità di un radicale cambiamento sociale nella zona.
Nel frattempo in tutto questo non abbiamo parlato se non con brevi cenni del convitato di pietra: il prezzo del petrolio. La cretina strategia saudita dell’anno scorso di mantenere alta la produzione, e bassi i prezzi, delle commodities energetiche ha si colpito la Russia e l’Iran, la cui ripresa dopo stralcio delle sanzioni ONU stenta a decollare del tutto, e i paesi latino americani legati alla Russia, ma si è ritorta contro la stessa casa reale degli al Saud. E contro i produttore di shale oil statunitensi.
Che cosa dobbiamo trarne noi dall’analisi di questa intricatissima situazione? Per chi si muove nel campo rivoluzionario, in tutto il mondo, la lezione, a nostro parere, è questa: non ci salvera ne dio, ne Cesare ne alcun tribuno. La politica del PKK-PYD, pur tra mille difficoltà e alcune contraddizioni, ha dimostrato che è possibile costruire un’alternativa radicale anche nelle aree devastate dalle guerre e davanti a stati dittatoriali come quello Turco o quello Siriano. Rafforzare i legami con chi nel mondo si muove su binari libertari e di classe, riaffermare l’importanza dell’internazionalismo di classe, dell’opposizione all’imperialismo, sia esso russo o americano, l’azione diretta. Sono questi i rimedi alla devastazione delle nostre vite da parte delle strutture autoritarie e gerarchiche.
lorcon